Recensioni
Marisa, una vita nel bunker della scrittura
12 dicembre - Domenica 18 nel C.D.I. "De Luca" ripresentiamo “Lisa ama il blues”, di Marisa Righetti
- Qualcuno è stato molto generoso a presentarmi come critico, ma non lo sono. Amo la poesia come voi e ammiro i poeti, soprattutto quelli veri, come Marisa Righetti (contro cui si accanisce pure il correttore automatico del mio pc che trasforma sempre Righetti in “Rigetti”….)
Proverò a dare una mia interpretazione dei suoi versi, appellandomi a quell’infinita risonanza che è intrinseca della poesia.
Non sarà una critica esaustiva, forse nemmeno seria, tanto è vero che comincio dalla fine del libro:
“Conoscenza di me era la pesca miracolosa: stare insieme a me, questo era già abbastanza, per una che tutti preferivano evitare o cercavano insistentemente. Prendevo più pesce di quanto me ne servisse. Minacciò la mia stessa sopravvivenza. Solo la paura della morte mi impedì di chiudermi in quella stanza. Ecco perché non vivo di scrittura…In quella stanza ho imparato a proteggermi, ad amarmi, ad amare, per la forza di una luce che come un faro si gira a rischiarare il fondo e il circostante.”
Così Marisa ci confida la sua vita nel bunker della scrittura, nel senso più ampio, visto che predilige accompagnarla con la prosa, allargando così il suo campo. Una vita che non vive di scrittura ma per la scrittura. Una scrittura stremata, scremata, portata alle estreme conseguenze, sebbene essa sia “trame di parole grigie vischiose/ materiale che non s’addensa/ in questa poltiglia/ in questo sputo letterario”; ma questa similitudine è simile allo sputo sul fango di Dio da cui nacque l’umanità, sputo creativo; rivela la grande responsabilità dello scrivere che la nostra poetessa avverte fino a scuotersi drammaticamente per essa, intensità più avverti a causa della brevità dei versi che assumono forma e carattere di un’unica lunga storia da raccontare, che vedrà altri capitoli; l’allitterazione, la scrittura rabbiosa e graffiante, l’arma bene affilata dell’ironia, il non sense:
“la poesia è uscita fuori dalla poesia”, ammette.
“Lisa ama il blues” non è una silloge di versi eterogenei, è una sorta di psicodramma a episodi o, se preferite, una serie di pagine strappate a un diario intimo: “…pezzetti di pensieri tracciati su cartuzze/ che incollati insieme un giorno/ le avrebbero fornito l’intera mappa/ della sua esistenza oltre che/ le coordinate esatte di dove si trovasse.” Ed ancora: “…l’ho portata la mia vita/ triste giovenca/ al macello.”
Capire questo rapporto con la scrittura, con la poesia, è fondamentale. “I poeti sono come i santi,/ che non lo ammettono/ in cuor loro.” I santi però portano stimmate, ferite profonde di chiodi, come a “un chiodo/ spuntato fuori/ fui ribattuta a martellate.”
Per Pavese “la poesia è una ferita sempre aperta”; Peguy, poeta francese di ispirazione cattolica, quasi con irriverenza, sorride sulle facili santificazioni quando dice che “prima di essere santi bisogna essere uomini”. Questa ferita della vita, che dai versi si desume sia stata ripetutamente inflitta a Marisa, necessaria per fare di un poeta un vero poeta e non un mero alchimista della parola, è sostenuta anche da un critico come Renato Serra quando, a proposito di D’Annunzio, scrive: “La sua anima e la sua prosa leziosa non conoscono il travaglio che è il principio primo della vita”. Il travaglio di Marisa accompagna tutti i suoi versi, ci afferra con le unghie, fin dalle prime battute: “Stretta in un angolo/ mi facevo carne/ dalla carne rabbiosa di mia madre. Dalla luce e dalla vita/ imparai a tenermi lontana/ come dalla mia stessa morte…”
Poesia è questo corpo a corpo con la parola, con il mistero, come il corpo a corpo di Giacobbe con l’angelo, il duro confronto con un assoluto che si avverte e di cui non possiamo fare a meno.
“Ci si illude sempre/ sulla mano di dio/ la mano amica/ Poi d’improvviso arranca/ sulla carcassa:/ piacere!/ Il colpo di grazia.” E quel domandare ‘ di chi ci dobbiamo fidare, di chi siamo figli, perché Dio s’è nascosto’...
Come due amanti litigiosi: “Io e la scrittura/ andiamo avanti così/ da troppi anni/ Non troviamo il modo/ Non ci rispettiamo abbastanza/ Non abbiamo il coraggio di rompere/ Forse ci amiamo.”
Nei tanti frammenti di quotidianità, quei “pezzetti”, serpeggia un’esistenza filtrata di solitudine, disperazione: “Padre nostro/ che sei nei cieli/ dacci oggi il dolore/ nostro pane quotidiano/ e non ci indurre in tentazione/ liberaci dalla speranza amen.”; “Bisogna cancellarla dal vocabolario/ la parola amore./ Bisogna che i bambini del futuro/ non sappiano nulla di questa madornale fandonia/ di questa micidiale bestemmia”; ma anche dal desiderio, dalla passione, sempre pulsante, anche quando essa è attorniata dal nulla, evidente nella rapidità e nella limpidità della scrittura sebbene le parole siano intrise di ironia e disincanto.
Madre di tutte le battaglie sembra essere la vecchia casa storica ridotta in macerie, nevralgico grembo e origine dei conflitti sotto l’ala incombente del “tirannosauro madre”, terribile nella sua divinità, “per nulla nostra madre/ c’insegnò la misericordia”, “dove per nulla ci amammo tra fratelli/ troppo imperfetti”; dove è possibile, ad un lettore attento, ravvisare un elemento simbolico poi ricorrente non solo nel vento che si leva furioso per spazzare via mondi e far deragliare destini, ma anche nel grande albero:
“Il passato è ora un albero./ Un grande albero abbattuto/ da cui ognuno/ porta via un pezzo/ fingendo di nulla./ Solo evitando le rose/ che ancora e sempre fioriscono.”
In “Via Aldini” torna il caos, “un focolaio di virus, un bubbone infetto, nel cuore di un quartiere residenziale, che noi abbiamo disinfestato, derattizzato, recuperato; questo era l’ex centro di accoglienza”; come quei pezzi di carta che vorrebbero salvare almeno la memoria, come quell’albero caduto da cui si porta via un pezzo illudendosi di perpetuare non tanto il ricordo ma il sentimento del primo nido e, pascolianamente, salvaguardarne quanto rimane. Così anche in via Aldini “i fiori di tiglio/ sul selciato/ fanno cerchio intorno/ al grande albero.” E un altro vento, come allora, “soffia stasera/ porterà lampi/ cascheranno altri tuoni/ sulla testa di san Gervasio…”; un altro uomo nell’intimità di una casa condivisa “mangia assorto/ mangia pane e pensieri.” Questo associare l’uomo al pane rievoca fin troppo quel padre le cui mani di pane rendevano desiderabile anche lo schiaffo. E San Gervasio sembra, adesso, non venir meno ai suoi doveri di patrono o protettore, salvando questo quartiere di Fiesole, come Sant’Ippolito, trovandosi di passaggio, salvò il suo paese omonimo dal terremoto quando invece avrebbe potuto ‘ fare un giro più largo’…
E’ un rapporto col sacro sicuramente dissacrante che apre un altro aspetto della poetica di Marisa, legato al suo essere donna, che si sviluppa su archetipi più o meno consapevoli ma radicati nell’antropologia dei luoghi, delle proprie radici.
Ho pensato ad Antonia Pozzi, la grande poetessa milanese, a quei suoi versi:
“Oh le parole prigioniere/ che battono furiosamente/ alle porte dell’anima.”
Ecco, la parola è necessità imprescindibile, apre le porte dell’anima, è atto di amore, identità, liberazione, “conoscenza di me”, afferma Marisa. E la donna ha un rapporto speciale con la parola, quello della conversazione, dell’affabulazione, ma esso si realizza storicamente in uno spazio di segregazione, senza storia, lo spazio del gineceo; la parola incisiva, che fa storia, rispettata e legittimata, traccia indelebile e trasformatrice in quanto detentrice di potere, le è stata nel tempo sostanzialmente negata.
Quando la donna assurge al potere della parola e la “brandisce”, al modo di vedere di una società maschilista, con l’intelligenza della sua eloquenza, riapparendo in società, la destabilizza e subisce la condanna di “strega”. Per questa parola forte la donna è stata spesso confinata tra il silenzio dell’esclusione e il grido della follia. O muta o matta. Le anime più deboli hanno scelto il silenzio, l’annullamento e la sottomissione, le più audaci hanno conosciuto l’ombra, o l’onta, del chiostro, del manicomio se non del rogo.
“Signu vilinusa/ cumu l’oleandru/ l’arburu di pazzi..”, afferma Marisa, e qual è questo veleno, qual è questa follia se non il riappropriarsi della parola nuda, cruda e creatrice sulla via dell’Io?
Se la parola è potere, identità e trasformazione, la scrittura, che la suggella e la consacra nel tempo e nella memoria, è la più insopportabile e temuta delle conquiste a causa dei suoi eccezionali risvolti etici e simbolici. Veramente straordinario che anche Marisa colga con felice intuizione, al colmo della “visione”, questo senso della coralità: “Erano voci di donne/ che lei incantata ascoltava come fossero/ la sola voce dell’intero universo.”
Come anche Anais Nin:“Non è solo la donna Anais che deve parlare, ma io devo parlare per molte donne.”
Scrive ancora: “Ero figlia della Rassegnazione/ A quante cose/ ho impedito d’accadere!/…Mi sono caricata del suo peso/ l’ho portata la mia vita/ triste giovenca/ al macello.”
Figlia della rassegnazione, superstite della violenza: “Non sapevo chi fosse costui./ Un brigante d’amore?/…Ingoiare fu nel senso di subire/ Ritrarsi fu immediatamente/ non amare…Ci fu un gran caos./ Poi tutto si mise a posto../ Le stelle nel cielo/ E le bestie/ sulla terra.”
Ancora una volta la vita è quel “melograno spaccato/che mostra i suoi denti insanguinati”, grande metafora. La violenza continua perfino nel silenzio di un mancato colloquio con i morti: “ritornare e incontrare/ mamma e papà al cimitero,/…poveri pure dopo morti./ Per dirci cosa poi?/ Se voi ci foste/ mi spingereste via/ le sentirei le voci:/ lontana vattene lontano.”
‘La stanza in cui lei ha imparato a proteggersi, ad amarsi, ad amare, per la forza di una luce’ è, dunque, la stanza della scrittura. Per fortuna qui la parola è salvifica, perché, scusate il cinismo dell’analisi, se non lo fosse e si rimanesse con la propria angoscia nella mera ricerca e contemplazione della verità davanti alle tenebre, per non dire davanti agli orrori quotidiani della vita, si spalancherebbero le porte del vuoto e dell’annientamento; tante poetesse hanno posto fine alle loro vite: la già menzionata Pozzi, Marina Cvetàeva, Silvia Plath, Amelia Rosselli, Anne Sexton, Elisabeth Bishop e altre ancora…
Sarebbe ipocrita ignorare o aggirare il problema che i caldi, sanguigni versi di Marisa pongono, anzi impongono, a cominciare dai gravi conflitti dell’infanzia, anzi dal trauma della nascita.
“Da genitori entrambi gemelli/ non nacquero arieti/ né scorpioni né capricorni/ né vergini né acquari./ Solo un pesce/ fuor d’acqua”, “Decima figlia, quindicesima gravidanza”, “mi cercarono sonde appuntite”, una vita fin troppo segnata in partenza e nei più teneri anni, quando “chiedevo che il mondo entrasse galoppando” e invece “sentivo verghe/ depositarsi strati/ Silenzi madre-perlati”, aggettivo scritto con un trattino, si noti l’ironia sul ruolo materno...
E’ un travaglio scandito col coraggio e la chiarezza di un’anima pura, “un’anima rurale”, “sensibile/ come ogni preda”, sconfitta e mai vinta, protesa verso il paradiso del piano più alto della sua casa, dove gioire è semplicemente anelare “a una tazzina di caffé/ che nessun santo/ nessun miracolo/ le avrebbe portato/ a letto fumante”!
Non è compito della poesia, e nemmeno mio, dettagliare gli eventi di questa personale via crucis e nemmeno ci interessa farlo; d’altronde Marisa è esplicita nel professare questo suo vangelo all’incontrario che, negando l’amore e le convenzioni ad esso sacrificate, come il matrimonio, in realtà lo reclama e lo consacra. Dopo averlo depennato dal vocabolario,stessa sorte tocca al matrimonio sarcasticamente rinvenuto, da esperta in chimica sentimentale, nell’unione “di mater ed ammonio/ elemento fortemente tossico.”
In realtà forte è la consapevolezza che non può esserci nessuna luce in paradiso, è un buio già scritto da altri, un déja- vu che troviamo anche nella sezione VI, “La malavita”; la violenza, “la via dei soldi”, il travaglio “è al di là del serpente/ Prima della mela/ E’ senza peccato/ Senza pudore/ Negarla è feroce/ Come togliere la vita/ Privare dell’aria del respiro/ Dovunque si paga per entrare/ Ci sono forme procaci/ Meline in esposizione/ E cornetti alla crema che profumano.”
“Meglio abbassarlo il cielo” perché nel Paradiso non si vola, basterebbe la gioia di camminare in libertà, “senza sequestri di persona”, “Una goduta di dovere/ Una caduta di godere”, nonostante tutte le cadute possibili: “Com’era leggero/ quel bagaglio./ Come le bastava il cielo!”
Emerge qui, nella donna che si ribella, che se ne va, l’altra faccia della luna, quella di Lilith, mitica prima donna, patriarcale, passionale, fertile, trasgressiva, protettrice delle donne partorienti e della vita stessa, che la storia degli uomini, non delle donne, ha soffocato per restituirci quell’eterno femminino che tanto bene Shakespeare incarna in un personaggio come Lady Macbeth: la donna demone, che si aggira sugli spalti del suo castello scrutando terrorizzata la sua piccola mano in cui teme di vedere tracce di sangue e che “tutti i profumi d’Arabia non basteranno a levigare.”
E sì, “Esiste l’uomo”…ma esiste anche la parola terapeutica, liberatrice; “il discorso è zoppo/ procede cauto/ a braccetto alla logica/ signora magrolina/ nevrastenica”; come un blues.
Mariangela Gualtieri, poetessa da lei amata, scrive in “Fuoco Centrale”: “Io parlo dell’amore. Lo scortico dall’incrosto/ nel sogno e ne faccio musica storta”. Sono le blue note dissonanti, che in Italia ci hanno fatto appioppare al blues la nomea di musica stonata ma rendono più credibile il travaglio che si esprime soprattutto nel grido sofferto, anarchico e ribelle; come quando Lisa dice a Burt, nei Simpson: “Ed ora puoi tornare ad essere te stesso, anziché un personaggio uni-dimensionale con una stupida frase fatta…”
Rocco Taliano Grasso
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sabato 17 dicembre 2011
Cosenza
La scrivania che ospita le mie parole, le foto a me care, gli appunti scritti e poi dimenticati, in questo pomeriggio di vento si raccoglie tutta – in ascolto – attorno a due libri: Lisa ama il blues di Marisa, e Per favore, non facciamo gli eroi di Carver. Il primo è la raccolta poetica di una persona che conosco, un’amica, il secondo raccoglie saggi, poesie e racconti di una persona morta più di vent’anni fa, che invece credo conosca me.
Potrà sembrare assurdo quello che ho appena detto, ma è soprattutto vero.
Quando ho immaginato mentalmente l’occasione in cui ora ci troviamo, voi e me, mi sono visto a disagio, bloccato tra cervello e stomaco, e incapace di esprimere fino in fondo ciò che la voce di Marisa lascia appuntato sulle ombre dei pensieri dopo esser stata filtrata dalla lettura.
Non sapevo bene che direzione avrebbero preso gli eventi.
La raccolta di Carver era sul mio comodino già da un po’, velata di polvere, e alcuni giorni fa, quando l’ho presa in mano, guardando con attenzione, delicatamente,ho visto il brevissimo, ultimo discorso che l’autore tenne in pubblico poche settimane prima della morte.
L’ho letto.
Riguarda la meditazione su una frase di Santa Teresa, che dice:
«Le parole conducono ai fatti. […] Preparano l’anima, la rendono pronta e la commuovono fino alla tenerezza».
Voglio rileggerla, «Le parole conducono ai fatti. […] Preparano l’anima, la rendono pronta e la commuovono fino alla tenerezza».
Questa frase, la semplicità delle parole di cui è composta, ha svelatoai miei occhi, con più chiarezza, quello che è lo spirito di Lisa ama il blues, ciò che nelle pagine di questo libro si muove per raccontare, che in fondo è quasi semprecondurre qualcuno da qualche parte.
Le poesie di Marisa spesso appaiono come dei fatti in carne ed ossa, esseri concreti che si sono voluti allontanare dal guscio evanescente del pensiero, altre volte sono fragili dubbi, risate dissonanti, anche un po’ amare.
Le parole di Marisa raccontano i fatti.
Restano con te mentre ti muovi nelle città. Quella che ti circonda. Quella che ti cresce dentro come una gabbia. Quella che forse meriterai un giorno, lassù.
La prima volta che le sentii parlare, fu una sera gelida di dicembre, lo scorso anno, in occasione di uno dei laboratori di lettura e ascolto che periodicamente organizziamo con Coessenza.
Ricordo il tremore nella voce di Marisa che –dopo tanto tempo – leggeva ad un pubblico le sue cose. Ricordo le sfumature, il calore, che quel gesto portò con se. Una manciata di poesie, tenere e tristi, preparavano allora l’animo di chi le aveva scritte al lavoro che sarebbe venuto dopo, cucendo gli abiti di queste pagine giorno dopo giorno.
Ora lo vedete qui, su un banchetto, o tra le dita di qualcuno che già lo ha preso per se, questo libro verde, vestaglia sontuosa che – come scrive Marisa - in sogno viene ceduta alla madre; adesso vive delle sue storie, che – con un pizzico di presunzione – considero anche mie, vissute anche da me.
Lasciando che la rabbia spezzata nelle lacrime mi commuovesse, e che i suoni di due pietre che battonoportassero alle mie orecchie la tenerezza. Guardando i cieli d’Olanda in eterno movimento mi scopro a sorridere, poi ridere di uno spettro – la poesia – con cui si può litigare anche fino a tacere.
Aggiungendo altro rischio di levarvi la sorpresa dei posti, del racconto. E non voglio farlo.
Concludo ritornando a Carver, e a ciò che dice per chiudereil suo discorso: «Molto tempo dopo che quello che vi ho detto vi sarà passato di mente, tra qualche settimana oppure tra qualche mese, e l’unica sensazione che vi rimarrà sarà quella di aver partecipato a una grande riunione pubblica, quando noterete la fine di un importante periodo della vostra vita e l’inizio di uno nuovo, nell’elaborare i vostri destini personali, provate a ricordare che le parole, quelle giuste, quelle vere, possono avere lo stesso potere delle azioni. E ricordatevi anche quella parola poco usata che è ormai quasi sparita dall’uso, sia in pubblico che in privato: tenerezza. Non potrà farvi male. E quell’altra parola: anima – o chiamatela spirito se preferite, se vi rende più facile rivendicare quel territorio. Non scordatevi neanche quella. Fate attenzione allo spirito delle vostre parole, delle vostre azioni. È una preparazione sufficiente. Non c’è bisogno di altre parole»
Carlo Stepancich
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Non posso né voglio fare un’analisi letteraria del libro.La mia sarà un’introduzione al reading musicato ma ancheun avvertimento.
Si, oggi col mio intervento voglio prepararvi.
Quello che troverete nel libro ha mille riflessi.
Scotterà, smuoverà, provocherà, commuoverà, rivelerà, ammiccherà, racconterà.
Più bella della poesie è stata la mia Vita diceva la Merini.
Sorridendo con Marisa ieri al telefono parlavamo di questa riflessione poetica.Qualcuno l’ha definita la Merini Calabrese
Lei mi diceva ridendo “HoiClà però per me è il contrario!Più bella della mia vita è stata la poesia!!!”
E giù a ridere..
Parlandoci è sempre venuto fuori questo, come un dato di fatto. La poesia è lo strumento trasparente, affilato unico che ha da sempre avuto tra le mani,da lei definito, lo strumento per forare la massa di macerie che mi era piovuta addosso. Col quale a volte ha giocato, ha ironizzato,
Boh!Solo boh è serio gli altri pensieri sono tutti maschi !
ha dato le sue risposte, ha denunciato, ha dato dignità a fatti come l’occupazione a Firenze.
esiste il fatto , sta tre giorni dietro la porta, entra e urla- dice.
Ha celebrato gli istanti unici della vita leggendoli con gli occhi della poesia che dava sempre giustizia alle cose.
A volte solo ne cantava la verità interiore.
Com’era leggero quel bagaglio,come lebastava il cielo!
Ha parlato della semplicità di alcuni istanti,
degli indumenti riversi in pose suicide,
della madre che prega, chi prega? poi si chiede,
delpadre Solo le mani erano calli giganti/ci sapeva suonare la chitarra/prendere i tizzoni /asciugarsi le lacrime col dorso/ e quando dava scappellotti ai bambini /era come se stessi mangiando pezzi di pane duro..ti ci accanivi perché duro/ma era buono/avevi fame di lui
dei figli Gli ho dato gambe lunghe per svignarselaquando vedono la mala parata
del ritrovarsi a salutare persone che non ci sono più eppure forti restano dentro,
dell’ ipotetico paradiso fatto discale da salire e scendere, da pulire gradino per gradino.
della semplicità di alcune persone conosciute che le hanno lasciato dentro un segno,
del futuro scandito dal suono di feroci domande, indomabili, implacabili,
di un uomo trascinato come un cristo con le manette giù per la discesa alle cinque di mattina.
Un universo di piccoli pezzetti di vita. Irripetibili.
La poesia è stata strumento sincero,pulito, limpido col quale ha scandito il tempo.
La sua pesca miracolosa che gli dava più pesci di quanti gliene servissero
Una scrittura pulita che si fa capire da chi legge.
Tutti la possono capire.
Chiara e schietta, fino a far commuovere in alcuni passi, fino a far sorridere di cuore.
E’ questo il libro di Marisa.
Un sorriso ora consapevole,ora leggero ma sempre profondo.
Contagiosa, così l’abbiamo definita.
Questa poetessa, quando la leggi, ti fa venire voglia di scrivere e il messaggio che sta dietro alle sue righe è proprio questo.
E’ uno sprono alla scoperta di un dono.
Dice lei della poesia: va scoccata come una freccia, nell’arco del presente.
Scrivere è un atto di assoluta devozione all’albero.
e ancora:
Chi scrive non lavora il legno/non scava nella pietra/ non piega il ferro/scava piega cuce taglia impasta/ altra materia/dentro se stesso
La poesia è di tutti, tutti possiamo farla, a tutti riempie la vita, o a farla con i fatti o a leggerla o a scriverla.
Grazie a Marisa viviamo unattimo di autenticità.
Come quando ti metti vicino ad un amico caro e ti racconti la storia della tua vita con una punta d’amarezza a volte, ma con la forza che condividere, unisce.
Qualcuno ha detto che l’amore è espansione, che si propaga.
Lei ne parla in modo conflittuale, a volte non semplice, ci racchiude un po’ tutti in quel suo vedere.
Piccoli diamanti tra i capelli, le sue poesie.
Con le parole che coraggiose, sanno sempre farsi strada.
e parlano della Vita. La nostra.
E anche questa volta sarà la poesia a parlare di sé.
Così non amavo gli alberi
non volevo sentire il frastuono
gli uccelli che vanno vengono
non si sa se ritornano
per me che temevo di cadere
un uccello è una pertica
cadendo mi ferivo
rovo pupilla spina
bocca rossa
cuore spampinato
un cuore forte a pugno
giusto non è che un cuore
perda ali, petali, colpi
(Marisa Righetti)