Appunti
Chi dice A...
“Chi dice A deve dire anche B”, scrivono i fratelli Grimm nella cinica fiaba di Hansel e Gretel.
Il calcio è metafora della tragedia greca. Conosco un mio amico fraterno per cui da qualche anno non basta più marcarlo “a zona”. È necessaria una marcatura “a uomo”. Si dice marcatura “stretta”, “a uomo”, soffocante, quando un difensore prende in consegna un attaccante e non lo molla più per tutta la partita. Ricordate Claudio Gentile e Maradona ai mondiali dell’82?
Non sempre però la marcatura serve a controllare. A volte diventa un atto d’amore. Il difensore e l’attaccante sgomitano e si spingono, ma poi si abbracciano, i loro sudori si mischiano.
Questo mio amico sfortunato, nella vita non fa l’attaccante. Scrive, legge, passeggia, ogni tanto si mette a urlare. Ha bisogno di essere marcato “a uomo”. Prendersi cura di una persona, accompagnarla, seguirla passo passo durante la giornata, è un gesto sempre più raro. Nel calcio non si gioca più “a uomo”, bensì “a zona”.
Avevo due zii malati di mente. Il primo andava in giro urlando per la città, tormentava la moglie che l’aveva lasciato. Una notte l’hanno beccato i carabinieri, mentre camminava per Corso Mazzini con un bastone in mano:
- “Che fai con quella mazza?”.
- “Me l’ha data San Francesco”.
Appena loro provarono a strappargliela di mano, lui gliela sferrò in testa. Finì in carcere, poi al manicomio per qualche mese. Quando un bel giorno ne uscì, sembrava guarito. I parenti si illusero:
- “Sta meglio”.
Così lo lasciarono da solo per poche ore. La mattina dopo lo trovarono morto, suicida.
Con l’altro mio zio malato di mente, invece, siamo cresciuti insieme. È morto nel suo letto. Mia nonna, che mai lo volle chiudere in una “struttura” - neanche per un istante - invocava spesso Dio, proprio lei che non è mai stata cattolicissima:
- “Signore, quando sarà il momento, fa’ che possa morire prima mio figlio. E poi io. Altrimenti chi si prenderà cura di lui, quando non ci sarò più?”.
Così fu.
Ogni volta che penso a questo mio fraterno amico da marcare “a uomo”, mi ricordo i miei due zii. Qualche anno fa, un PM osannato dalla borghesia cosentina l’ha mandato in carcere proprio nel momento in cui forse questo mio fraterno amico si poteva ancora curare. A Catanzaro, in cella, l’hanno imbottito di psicofarmaci. Per due anni, chissà quante torture fisiche e psicologiche ha dovuto subire, lui che forse era stato già ferito al cervello dall’assunzione esagerata di sostanze psicotrope. Uscito di galera, era già un’altra persona. Cominciò a vagare per la città. Vedeva nemici ovunque, si sentiva perseguitato. “Chi dice A deve dire anche B”: invece di comunicargli amore, a volte l’ambiente umano circostante gli ha trasmesso rancori, tossine, sospetti che albergano in tutti noi, aizzandolo contro questo o quel malcapitato. Il disagio s’è fatto malattia. Mi pare che la chiamino “schizofrenia”. In tanti la confondono con la personalità lunatica e con gli sbalzi d’umore che tutti possiamo avere. Invece, pare sia una patologia seria e grave.
Esiste la malattia mentale o è una condizione metafisica?
Tutti gli organi si ammalano. Il cuore, il fegato, i polmoni! Perché dunque non dovrebbe ammalarsi il cervello?
Se un essere umano sta male, qualunque sia l’organo che non gli funziona più, ha bisogno di una o più persone che lo amino, lo accompagnino minuto dopo minuto. Forse non guarirà. Perché a volte la marcatura “a uomo” non basta. Ma perlomeno le sofferenze saranno meno acute. Se poi è il cervello ad ammalarsi, la marcatura è indispensabile per evitare che l’ammalato possa fare del male a se stesso o agli altri. Perché l’ammalato ha il diritto di vivere sereno, però pure gli altri ce l’hanno. Intorno a lui, non vivono solo matrone ingioiellate e notabili imbiancati che non vogliono essere disturbati da presenze anomale durante la loro aristocratica passeggiata sul principale corso della città. Intorno a chi soffre, spesso, purtroppo, vivono altri esseri umani a loro volta sofferenti.
Conosco persone che di questo mio amico fraterno - da marcare “a uomo” - si sono occupate giorno e notte. La madre, i fratelli, due o tre compagni veri, l’hanno marcato “a uomo”. Non è bastato. Alla fine gli è capitata l’esperienza peggiore che possa accadere a un essere umano, dopo un tumore, la carcerazione o la perdita di un figlio: l’hanno chiuso in un Ospedale Psichiatrico Giudiziario. Lì dentro, gli psichiatri sono onnipotenti. Se ci mettono la firma, non uscirai mai più. Se becchi l’ergastolo, forse ce la farai. Ma se ti rinchiudono in un OPG, no!
Da due o tre giorni, non riesco a fermarmi un attimo. Mi frulla in mente sempre lo stesso pensiero. Questo mio fraterno amico deve tornare libero, purché sia marcato “a uomo”, con affetto, senza dargli psicofarmaci.
Su internet leggo che tante altre persone volevano – e vogliono bene - a questo mio fraterno amico. Così continuo a rivolgere a me stesso sempre le stesse domande: c’è spazio per quelli come lui nella nostra società? Quale “struttura” non detentiva potrebbe ospitarlo? Ma soprattutto: chi, tra quelli che dicono di volergli bene, sarebbe disposto a marcarlo “a uomo”? Esistono ancora “difensori” della dignità umana, disposti a infilare le mani nella merda, dopo averle passate sulla tastiera? Qualcuno lo conosco. Ma temo che non basti.
Claudio Dionesalvi
PS
ribadisco la mia firma all'appello per l'immediata liberazione - SENZA SE E SENZA MA - dall'OPG.
Rinnovo la mia stima umana e politica nei confronti di chi lo ha scritto e di quanti lo hanno firmato.