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Politica e cultura di A. Caffi

Recensioni

Politica e cultura di A. Caffi


LA BIOGRAFIA INQUIETA DI SOCIETÀ, SOCIALISMO E RIVOLUZIONE -

Difficile definire l’oggetto letterario, recentemente pubblicato per i tipi di Rubbettino, “Politica e cultura” di Andrea Caffi, e curato da Massimo La Torre, che sigla pure una chiara scheda biografica all’inizio del lavoro e un saggio di riuscita concettualizzazione a margine dell’opera. Questo perché non è un lavoro di Andrea Caffi che giunge a una nuova edizione critica. È piuttosto una paziente antologia di scritti del socialista rivoluzionario, collezionata, in realtà, non venendo meno alla possibile e sottesa integrità dell’opera letteraria di Caffi -meno organica quanto alla sistematica filosofica e politologica- e al filo conduttore che ha plausibilmente condotto il volume a stampa: i rapporti tra la politica e la cultura, intesa la prima, soprattutto, come militanza laica e attitudine critica avverso i sistemi di governo, e la seconda, humus composito difficile da decrittare a prima vista, ma con una forte connessione tra le proprie stesse componenti.
Caffi ha fatto di una certa interpretazione della propria attività intellettuale un manifesto esistenziale: più che il limbo di un distacco cognitivo cui ci abitua certa letteratura caricaturale, testimonianza militante di esperienze contro l’ordine costituito. E ne ha ben donde, se nella vicenda biografica di Caffi si passano in rassegna i tumultuosi crinali collettivi: le promesse tradite della rivoluzione del 1905, la mattanza della Grande Guerra, dove, tra i primi anche sul fronte socialista, intuisce l’esito nefasto di una pesante e totalitaria ristatalizzazione, la Rivoluzione d’Ottobre che si attua con una propria costante autoinvoluzione, i circoli antifascisti sospesi tra impotenza operativa e repressione sistematica, la delusione dopo il 1945, quando le categorie concettuali della Guerra Fredda generano una compartimentazione senza sbocchi per la libertà della cultura (sospesa com’è tra il voto atlantico e la sirena intossicata del socialismo scientifico).
Come a dire: Caffi combatte ogni nemico per circa cinquant’anni. Una longevità critica senza paragoni. Basti guardare a molti contemporanei del Nostro: chi si è misurato con lo stalinismo e ha perso, ma allo scopo di volere riprodurre un’organizzazione internazionale che ripristini le virtù e gli antichi valori della “causa”; chi si è gettato a braccia aperte nel “riformismo”, senza intuire a cosa avrebbe portato il consociativismo italiano; chi, poi (e molti), è morto sul fronte. Chi (e di più) alla lotta e alla generosità intellettuale ha preferito un (metaforico e non) salvarsi la pelle.
Personaggio davvero affascinante e di grandi capacità d’adattamento, compensate da alcuni granitici riferimenti culturali, che su per giù fanno eco in tutta la dispersa opera caffiana: in primo luogo, la sociologia di Simmel, una valutazione assai prudente di Nietzsche (ben lontana da certe fumisterie “ardite”, come quelle che magari in buona fede disseminava un Alfredo Oriani) e una linea di continuità con la tradizione socialista, senza mai dimenticare una critica altrettanto costante al dogma economicistico marxiano.
Militante legato, in qualche misura, alla città di Cosenza. Non solo perché nel primo Novecento nella terra delle Confluenze dava i primi vagiti un certo socialismo libertario e radicale; non solo perché il Caffi era profondo conoscitore di arte e storia bizantina, studiandone anche le numerose testimonianze calabresi. In una serie di piccoli aneddoti, che varrebbero ad avvicinare affettivamente Caffi alla diffusione del socialismo in Calabria, ben prima del togliattismo, del frontismo, del trotzkismo e, più in là, di operaismo e autonomia, ricordiamo pure il seminale lavoro del Bianco, per i tipi di Lerici. Casa editrice cosentina, che pubblicò alcuni libri di vera indagine culturale sul finire del decennio della contestazione (a ben altri fini, si segnala l’altrettanto seminale “La fabbrica nel Sud. Il mercato del lavoro a Cassino dopo l’insediamento della Fiat”).
Come profilo intellettuale, e a prescindere da una conoscenza tra i due che pure vi fu, potrebbe dirsi che Caffi anticipa, in modo magari ancora molto magmatico, alcuni tratti di Camus. Ad avviso del curatore, nel lungo e intrigante saggio conclusivo, non mancherebbero profili di affinità tra Caffi e Hannah Arendt, non meno che talune consonanze habermasiane -da ricercare, però, nella genealogia della Scuola di Francoforte per ritrovare, una volta di più, i gradi di parentela con l’interpretazione di Simmel.
Nel libro e nelle annotazioni preziose che lo corredano c’è, perciò, il segno di un personaggio straordinario, un socialismo inquieto come furono almeno alcune personalità che dal filone socialista finirono per transitare. Tre generazioni scoccano tra una delusione e l’altra: quella della Grande Guerra e dell’Ottobre, quella dell’antifascismo e, solo pochi decenni prima, la leva dei pionieri del mutualismo -su cui pure influirono le tante delusioni di un’eterodiretta unità nazionale, calata dall’alto quanto svilita dal “basso”, dalle forze vive che ben altro si sarebbero attese dall’unificazione.
Ecco perché Caffi, al netto delle molte differenze teoriche e di scelte di vita, non ci sembra troppo distante, nell’anelito di fondo almeno e purtroppo anche nella familiarità alla sconfitta, dal “bardo” Felice Cavallotti, dall’Enrico Malatesta che non vede la profetizzata “rivoluzione anarchica” prendere piede in Spagna, persino dal “nostro” Pasquale Rossi. E a motivo di questo ennesimo termine di paragone, non bastasse il ceppo “simmeliano” o l’insistito studio sulla società come singolare “teatro” di rapporti, basti leggere il Caffi stesso, per come ce lo restituisce La Torre nel soffermarsi sul concetto di “festa” nei riti sociali: “in questa l’individuo rompe l’immobilità della società, ma nello stesso tempo acquisisce un esaltato sentimento di socialità. [Secondo Caffi] la festa agisce .
Il buon vecchio medico Rossi sorride in disparte sentendo queste parole, dimenticato dalla nostra sgangherata annalistica operaia.

Domenico Bilotti