La Scuola del Vento
Rom a cosenza di Benedetta Caira
“E chi sono, queste Winx?”. Grazianka ha undici anni e porta addosso – inconsapevole - una maglietta con Bloom e le altre, le fatine colorate che fanno impazzire le sue coetanee italiane e di cui ignora l’esistenza. Perché per lei il televisore, quello che suo padre ha sistemato vicino al letto, serve solo per specchiarsi la mattina, dopo essersi lavati la faccia nell’acqua del fiume.
È difficile immaginarsi un mondo senza corrente elettrica eppure basta fare cento metri oltre la ferrovia per scoprire una notte senza stelle illuminata da un falò, la musica balcanica che arriva dallo stereo delle macchine, il profumo degli stufati di carne e patate che cuociono sui fornelli a gas. Grasse risate di uomini e donne che raccontano a voce alta. E decine e decine di bambini che si rincorrono, ridono, si sporcano, giocano sotto la pioggia, fanno quello che i bambini della città non sono più capaci di fare.
Benvenuti sulla riva destra del fiume Crati, popolata da una delle comunità rom più grosse del meridione, sono circa cinquecento, di cui almeno 130 minori. Un centinaio di baracche a ridosso dell’acqua che d’inverno, con le piogge, diventa una minaccia. Niente luce, niente acqua potabile, niente servizi igienici: una sistemazione precaria sulla quale pende un’ordinanza di sgombero che potrebbe diventare esecutiva da un momento all’altro.
Eccoli i rom: brutti, sporchi e cattivi? A vederla da questa angolazione per qualche istante ci si sorprende invece a invidiarla questa loro vita all’aperto, misera eppure allegramente chiassosa e disordinata.
Nel campo ha appena riaperto la “Scuola del vento” gestita da alcuni volontari di associazioni calabresi sensibili ai diritti dei migranti: una baracca di legno con una lavagna, i banchi e tanti libri dove i piccoli rom possono imparare a leggere e a scrivere. “Si chiama così perché una delle prime volte che siamo entrati nel villaggio, il vento si è divertito a lanciare in aria il nostro gazebo che ha cominciato a rotolare tra le baracche – racconta uno degli insegnanti “di frontiera”- . Tutti insieme, divertiti, lo abbiamo inseguito. È bello vedere una scuola che vola. Inseguendo il gazebo ci è capitato di guardare in alto. E così dal campo rom abbiamo intravisto i tetti della città. Non li avevamo mai notati, i tetti”.
Un’esperienza che in un periodo così difficile per la situazione dei rom in Europa acquista una valenza maggiore. “Facciamo lezioni di italiano, matematica, decoupage e artigianato. I bambini rom imparano subito – prosegue uno degli insegnanti di strada - ti aspettano con ansia quando sanno che vuoi insegnar loro qualcosa e hai scelto di farlo nel loro mondo, quello dei gitani, all’aperto, lontano da aule anguste e chiuse delle scuole italiane”. Gli stessi volontari sono impegnati in altre importanti azioni: il censimento e le vaccinazioni dei bambini, finora sono già cinquanta i minori che hanno ricevuto le dosi che li preserveranno da molte malattie.
Avidi di coccole e di nuove lezioni, i piccoli rom non si perdono una parola, qualcuno di loro fa da interprete mischiando romeno e italiano, due lingue così simili nel suono e nella pronuncia.
Raveca è madre e nonna, il nipote più piccolo ha tre mesi ed è arrivato in Italia solo da due settimane. “Lo sappiamo bene che senza la scuola i nostri figli sono più deboli” dice, e il suo sorriso sdentato si spalanca tra una rete fitta di rughe, nonostante i suoi 48 anni. “Viviamo una vita da clandestini ma sogniamo un futuro diverso per loro. Dicono che siamo cattivi, ma noi siamo come tutti gli altri popoli: tra noi c’è gente cattiva e c’è gente brava”. Anche sulla sua testa pende la spada dell’espulsione, “siamo fuggiti dalla Romania perché lì c’è la fame, quella vera. In Italia viviamo lo stesso nella miseria, ma almeno abbiamo qualcosa da mettere nella pancia tutti i giorni. Per questo vogliamo rimanere qui”. In una città che spesso non li tollera, li ignora o li scaccia. Del resto la prostituzione delle ragazzine con gli anziani, gli episodi di microcriminalità e le ordinarie scene di bambini piccolissimi lanciati per strada a chiedere l’elemosina non sono, purtroppo, leggende metropolitane. “Guardi qui – s’indigna Michela indicando all’interno della sua baracca le scatole piene di corni rossi e sottopentole di paglia– noi lavoriamo, ogni giorno facciamo ottanta chilometri in macchina per andare a vendere la nostra roba, noi non li sfruttiamo i nostri figli. Certo, qualcuno che per fare soldi si prostituisce o ruba c’è, ma sono rom che arrivano da altri campi, non è giusto criminalizzare tutti”. Vallo a spiegare alla Procura della Repubblica che ha già pronti i decreti di espulsione. Dopo l’ultimo blitz nel campo, lo scorso anno, ne sono stati emessi cento, alla base dei provvedimenti il prefetto aveva posto come motivazione il fatto che “il cittadino romeno rappresenta una potenziale minaccia concreta effettiva e grave ai diritti fondamentali della persona ovvero all’incolumità pubblica, rendendo incompatibile la civile convivenza”.
Conclusioni che fanno infuriare i volontari, “noi ci mettiamo tanto a conquistare la fiducia di queste persone – s’indigna Enza - e le istituzioni, anziché aiutarci, vanificano il nostro lavoro. Perché i rom si sentono traditi, da una parte c’è qualcuno che gli tende la mano, dall’altra un dito puntato che li obbliga a scappare”.
Benedetta Caira